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Nessuno di noi ama la stradina che da Melezet porta ai Rifugi della Valle Stretta: un falso piano, che spingi a salire, spingi a scendere, spingi sempre.
Ma adesso no, adesso ci son le “cundi”.
La stradina è pulita, si arriva ai rifugi in macchina, ed allora dal cappello del GSA esce un Thabor fuori programma.
Mentre una quindicina di noi è impegnata nello sfidante Raid della Vanoise, nutrendosi di qualunque avanzo di rifugio francese, un’altra quindicina si raduna ad Almese, con tanto di sosta caffè, e parte verso la vicina meta.
Si inizia, più o meno composti, chiacchiere e sci in spalla fin quasi al Pian della Fonderia, poi una striscia di neve di cui non vediamo la fine ci convince a mettere gli sci.
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Ed ecco che ci sfreccia davanti il Dottor Massarini, che l’anno scorso ci aveva tenuto una lezione in merito ad allenamenti e alimentazione.
E’ lui?
Quello che ci ha detto che il panino è preistoria e che invece dovremmo ingollare gli aminoacidi e i gel?
Nasce un lieve senso di colpa per il panino da mezzo chilo che ho nello zaino, ma taccio.
Iniziamo a salire, qualche bandierina rossa marca il percorso: sono i rimasugli della “Traversata dei re Magi” di qualche settimana fa.
Non fa caldissimo, e dopo quota 2.200 il rigelo sembra buono.
Il sentiero è dissemito di croci: una poco dopo la partenza passa quasi inosservata, un’altra più prossima alla vetta, ma ancora ben bassa, lascia illudere per un attimo, ma è solo un attimo.
Tutti sanno che la vetta è lassù, dove c’è la chiesetta. Tutti sanno che la si vede per un bel pezzo prima di raggiungerla.
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Ai primi accenni di stanchezza da parte di una partecipante, un galantuomo ben allenato, le lascia una magica pozione sul percorso.
Due succhiate a sto tubetto, e “Va Va voom!”, della stanchezza non rimane neanche l’ombra.
Come nella vecchia pubblicità della Duracell, anche un altro orsetto sembra aver difficoltà a procedere: una ciucciata anche a lui e riparte.
E dai allora no, allora voglio provare anch’io, cos’è? “E’ gel, ma è finito”. Ah, il gel che diceva il Dutur.
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E allora niente, conto i passi e spero nella pazienza delle capegita di chiusura.
Tutti in cima, e tutti a percorrere quei venti metri che dalla cappella ti portano alla punta vera, bella, da foto: gli Actis Brother discutono su quale sia la punta vera e ne eleggono una, che va bene per tutti.
Siamo sul Thabor.
Il panorama merita, il sole c’è, si scherza, si scattano foto.
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Radunati alla chiesetta, arriva il momento del mio panino, con stracchino di baita da far invidia a Eataly e fagiolini.
L’invidia forse la fa proprio solo a Eataly, perchè i compagni di gita lo “schifano”, e mi spiegano come hanno allenato il fisico a non mangiare finchè non torna a valle.
Al primo morso, si avvicinano le nuvole e “Ragazzi scendiamo!”.
Per fortuna le nuvole ci ripensano e scendiamo con un’ottima visibiltà.
La neve è bella: per mille metri abbondanti la discesa è su firn, così facile che sembra che tutti sciamo come Tomba o Paris.
Curva dopo curva il bel gruppetto scende.
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Super-Germano, che ha calzato gli sci per la prima volta nel recente Gennaio 2015 ed oggi era alla sua seconda scialpinistica in assoluto, è sceso tranquillamente insieme al gruppo annullando qualunque preoccupazione dei capigita.
Anche senza le acciughe, abbiamo allestito un ottimo tavolino, con insaccati, formaggi e torte di panetteria e le numerose quote rosa non si sono sentite per niente sminuite quando vicino a noi, un quintetto di sci-alpinisti degustava, con tanto di tovaglia, manicaretti da ristorante preparati dall’unica donna del gruppo.
Silvia, che lascia la parola al Raid.
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Fotografie di Walter Actis